MILANO – La pandemia ha un impatto anche sul modo di fare ricerca e di conseguenza sul modo di vivere gli spazi universitari. Un gruppo di ricerca interdisciplinare del Politecnico di Milano, composto da Gianandrea Ciaramella, Alessandra Migliore e Chiara Tagliaro del Dipartimento Architettura, Ingegneria delle Costruzioni e Ambiente Costruito (DABC) e da Massimo G. Colombo e Cristina Rossi-Lamastra del Dipartimento di Ingegneria Gestionale (DIG), ha raccolto le esperienze di 8.049 accademici universitari (49% donne, 51% uomini, età media 51 anni) in tutta Italia tra il 24 luglio e il 24 settembre 2020.
I ricercatori universitari, come altri lavoratori con alto capitale umano, hanno modificato i propri modi di lavorare a causa della pandemia Covid-19. Le implicazioni di questo fenomeno, che il gruppo di ricerca chiama Covid-working, sono molteplici in particolare in termini di organizzazione dello spazio per il loro lavoro. Le domande rivolte ai docenti riguardavano il modo di fare ricerca (individuale o collaborativo) e gli spazi utilizzati per svolgere le proprie attività di ricerca (in quanto fattori abilitanti alla ricerca stessa) nel periodo pre e durante Covid-19.
I risultati evidenziano tendenze molto chiare. In primo luogo, i dati mostrano un orientamento generale a impostare le attività di ricerca in modo più individuale rispetto al periodo pre-Covid. L’attività di ricerca, complice il distanziamento fisico, diviene un’attività più individuale che collaborativa. Soprattutto i ricercatori afferenti ai settori scientifici delle Life Sciences (LS) e Physical Sciences and Engineering (PE) passano da un lavoro prevalentemente bilanciato in termini di ricerca individuale e collaborativa a una ricerca drasticamente più individuale (da una media di quattro volte a settimana in università a poco più di una). I ricercatori afferenti invece al settore Social Sciences and Humanities (SH) subiscono una “individualizzazione” meno drastica, essendo già abituati ad una attività di questo tipo.
In secondo luogo, con l’allentarsi progressivo del lockdown, si delinea uno scenario diverso nel rientro negli spazi universitari: emergono differenze di genere in termini di organizzazione degli spazi di lavoro. Al termine della prima ondata pandemica, infatti, la maggioranza delle donne ha continuato a fare ricerca da casa mentre gli uomini hanno ripreso maggiormente a utilizzare anche altri luoghi di lavoro: non solo l’università, ma anche spazi terzi come laboratori e biblioteche pubbliche. Una tendenza che ha iniziato a delinearsi già durante la fase iniziale di restrizioni sociali molto severe.
Le donne sembrano essere penalizzate, in particolare, perché in era pre-Covid usavano spazi condivisi in numero maggiore rispetto agli uomini ed ora, a causa delle necessità di distanziamento fisico, si trovano in maggiore difficoltà a rientrare nel proprio luogo di lavoro abituale. I dati mostrano infatti come gli uomini, durante la progressiva riapertura dei campus universitari, siano tornati più di una volta a settimana nei loro uffici, prevalentemente singoli, mentre le donne, con uffici prevalentemente condivisi, lavorano da casa più dei colleghi maschi (4-5 volte a settimana).
I primi risultati dell’analisi mostrano dunque come la ricerca stia diventando in generale più individuale (la percentuale di attività di ricerca collaborativa passa dal 42% pre Covid-19 contro il 31% attuale, mentre l’attività individuale cresce di circa il 10%) e come gli uomini, sia prima che durante il Covid-working, abbiano maggiore accesso ad ambienti di lavoro diversificati. Gli effetti di questa nuova organizzazione del lavoro sono ancora da approfondire, soprattutto in riferimento alle categorie più penalizzate: non solo le donne ma anche i giovani ricercatori che, secondo i dati raccolti, hanno subito una diminuzione consistente della loro attività di ricerca collaborativa in una fase cruciale della loro carriera accademica.
“La ricerca collaborativa è fondamentale per fare progressi scientifici – sottolinea Donatella Sciuto, Prorettrice del Politecnico di Milano – è sicuramente necessario trovare al più presto soluzioni che consentano di riprendere queste attività non solo con strumenti digitali ma anche in presenza. Non dimentichiamo mai che è soprattutto sul campo dell’innovazione che si gioca il futuro. Non è pensabile infine che le donne scienziate e i giovani ricercatori escano ulteriormente penalizzati da questa situazione di emergenza”.
I dati sui ricercatori italiani pongono quindi importanti interrogativi sull’impatto della pandemia COVID-19 sulle caratteristiche e la qualità della ricerca scientifica:
- Esiste un nesso causale tra attività di ricerca individuali o collaborative e spazi a disposizione? Lo spazio per la ricerca scientifica manterrà la sua primaria funzione di incontro tra individuo e dimensione collettiva?
- Qual è l’impatto delle nuove modalità di organizzazione spaziale delle attività di ricerca sulla conciliazione casa-lavoro e sulla produzione di risultati scientifici? È uguale per uomini e donne?
- Come ridisegnare i campus universitari del futuro affinché promuovano a pieno pari opportunità nella ricerca e nella progressione di carriera? Quanto lo spazio fisico può favorire questi obiettivi?