MILANO – Il tabagismo rappresenta uno dei maggiori problemi di sanità pubblica a livello mondiale, causando da solo più decessi di alcol, AIDS, droghe, incidenti stradali, suicidi e omicidi insieme.
Il fumo risulta, infatti, il principale fattore di rischio evitabile per malattie neoplastiche: i decessi per cancro al polmone sono il 18,4% di tutti i decessi per tumore (più di mammella, colon-retto e tumori cervicali insieme) e per le malattie respiratorie non neoplastiche e tra i maggiori fattori di rischio cardiovascolare. Ha inoltre impatto negativo sul sistema riproduttivo di entrambi i sessi, riducendo la fertilità.
Ad accendere i riflettori sugli effetti del tabagismo, definito dall’OMS una vera e propria epidemia, è il Santagostino Monitoring – Osservatorio sulla Salute che, in occasione della Giornata Mondiale contro il Fumo che si celebra il 31 maggio, offre una fotografia globale del fenomeno, da un punto di vista clinico, psicologico e sociologico.
“A differenza di quanto accade con altri tumori, il carcinoma polmonare ha una causa chiara e del tutto evitabile: la sigaretta”, spiega Federico Raveglia, chirurgo toracico del Santagostino, che aggiunge: “L’85%-90% dei tumori polmonari interessa i fumatori, che sono quindi considerati soggetti ad alto rischio. L’altra caratteristica di questo tumore è la bassa percentuale di guarigione, perché i sintomi di solito si manifestano quando la malattia è già a uno stadio avanzato, quindi non operabile, e le terapie disponibili risultano ancora poco efficaci. Per questo motivo solo il 15% dei pazienti affetti da cancro ai polmoni è ancora in vita a 5 anni dopo la diagnosi”
L’importanza di uno screening precoce
Secondo le evidenze del centro studi Santagostino Monitoring che ha preso in esame la più recente letteratura scientifica internazionale, uno screening precoce di tumore polmonare aumenta la probabilità di sopravvivenza fino al 90%.
“E oggi la diagnosi precoce è possibile – ricorda Federico Raveglia – con uno screening effettuato con TAC a basso dosaggio (LDCT) del torace destinato a fumatori o ex fumatori”.
“Sono oltre dieci anni”, sottolinea lo specialista, “che questo modello diagnostico è diventato uno standard in contesto oncologico, chirurgico e respiratorio. Con la TAC al torace a bassa dose è possibile rilevare alterazioni polmonari anche di piccole dimensioni: tumori agli stadi iniziali, oppure lesioni sospette che possono aumentare il rischio di sviluppare la malattia nel prossimo futuro. Queste lesioni vanno monitorate. La valutazione delle immagini radiologiche, va specificato, deve essere eseguita da un team di esperti (pneumologo, radiologo, chirurgo toracico), che sappiano gestire il rischio di un esito falso-positivo. Purtroppo, il Sistema Sanitario Nazionale non copre ancora questo servizio e un programma capillare di prevenzione secondaria, a livello nazionale, è ancora lontano”.
Infatti mentre per alcuni tumori come ad esempio al seno, al collo dell’utero e al colon-retto in Italia esistono screening specifici a livello nazionale, dedicati alle fasce di popolazione più a rischio, non esiste ancora un programma di nazionale gratuito dedicato alle neoplasie polmonari: siamo ancora in una fase in cui la comunità scientifica internazionale sta vagliando l’efficacia ed il rapporto rischi/benefici di iniziative di questo tipo.
Conclude Raveglia: “Resta comunque ancora fondamentale, per ridurre la mortalità per tumore al polmone, agire sui fattori di rischio modificabili (prevenzione primaria), a partire dal fumo di sigaretta. Ogni sigaretta fumata aumenta le probabilità di contrarre la malattia, ogni sigaretta non fumata lo diminuisce. Per questo non è mai troppo tardi per chiudere con il tabagismo: quando non ce la si fa da soli, la psicoterapia può essere un valido aiuto”.
L’aspetto psicologico: la dipendenza dalla sigaretta
Secondo i dati riportati da una recente review, nel 2018 il 55% dei fumatori hanno provato a smettere durante il precedente anno, ma solo il 7,5% aveva resistito almeno dodici mesi. Uno dei motivi è che solo un terzo dei fumatori si avvale, per smettere, di qualche metodo di efficacia dimostrata scientificamente. In Italia si stima che solo un 2-3% di chi prova a smettere di fumare da solo ci riesca, percentuale che sale al 30% per chi si avvale dei centri antifumo.
“Lo standard attuale del trattamento per smettere di fumare consiste in un approccio sia psicologico (con la terapia cognitivo-comportamentale) che farmacologico”, spiega Michela Romano, psicoterapeuta dell’ambulatorio antifumo del Santagostino.
La terapia farmacologica consiste sia nel ridurre i sintomi di astinenza da nicotina tramite prodotti sostitutivi (NRT) che nel minimizzare gli effetti piacevoli provati fumando (è il caso della vareniclina e della citisina), o coadiuvando la disassuefazione al fumo (bupropione). L’efficacia di ciascuno di questi farmaci è risultata significativa statisticamente.
“Ma un grosso scoglio per chi sta cercando di smettere è la dipendenza psicologica: a chi vuole davvero smettere serve una vera e propria “palestra” per la gestione del craving (tecniche e strategie utilizzate per gestire il desiderio di fumare, ndr), il potenziamento della gestione delle proprie emozioni, costruire nuove abitudini per imparare a gestire tutti gli aspetti della vita quotidiana con grande beneficio non soltanto per ciò che concerne il fumo, ma anche il lavoro, le relazioni sociali, gli affetti”, spiega Romano.
Conclude l’esperta: “Per questo – e lo sperimento ogni giorno nella mia esperienza clinica – un lavoro multidisciplinare tra più professionisti e l’integrazione di più interventi come quello psicologico e quello farmacologico hanno un’efficacia provata nel trattamento della dipendenza da tabacco”.