BERLINO – Quando si parla di lavoro ibrido o di smart working, ci si imbatte in opinioni fortemente contrastanti. Secondo Statista, ad aprile 2021 il 16,8% dei professionisti in Italia lavorava in modalità ibrida e il 14,8 % esclusivamente da casa, per un totale di 7,3 milioni di persone. Nonostante il 53,6 % degli under 34 lamentasse problemi di salute insorti a causa di postazioni di lavoro sprovviste di un equipaggiamento tecnico professionale, il 62,4 % percento dei lavoratori totali si dichiarava comunque soddisfatto di questa modalità operativa. |
Per agevolare i numerosi italiani che ancora oggi rinnovano la scelta del lavoro ibrido o remoto e snellirne considerevolmente la burocrazia annessa, dal primo settembre 2022 questa prassi è regolamentata – secondo quanto stabilito dalla legge 81 del 2017 – tramite un accordo individuale, che può essere temporaneo o indeterminato, tra il dipendente e il datore di lavoro. La questione invece si complica in merito alla dotazione tecnica. Sempre tramite accordo individuale, infatti, il datore può sia fornire al dipendente gli strumenti necessari allo svolgimento della prestazione che garantiscano un accesso sicuro ai sistemi aziendali, sia richiedere al lavoratore remoto di impiegare dispositivi privati secondo i paradigmi del BYOD (Bring Your Own Device), previa definizione dei requisiti minimi di sicurezza da implementare. Questa dualità fa capo ad un vuoto normativo, che non solo rimette l’idoneità degli strumenti impiegati alla discrezione dei singoli ma dà luogo ad un esercizio gravoso quando si tratta di garantire la messa in sicurezza di dispositivi non forniti dall’azienda. Un compito a cui le aziende possono far fronte – in realtà – solo dotando gli uffici con dispositivi plug&play pensati per un uso flessibile. Quindi dispositivi impiegabili sia da casa sia in ufficio, o il cui eventuale doppio acquisto non pesi troppo sul budget IT dell’azienda.
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