TORINO – Raffrescare e riscaldare gli ambienti in cui viviamo o lavoriamo è un’esigenza comune nella maggior parte delle aree abitate. In Europa, l’energia consumata per la climatizzazione è già in aumento, ma l’innalzamento delle temperature in diverse regioni del mondo fa prevedere un possibile aggravarsi di questa esigenza. Per soddisfare il bisogno di raffrescamento degli edifici durante la stagione estiva, la tecnologia più diffusa a livello domestico e industriale è il classico condizionatore, che spesso impiega fluidi refrigeranti ad alto impatto ambientale e richiede inoltre un elevato fabbisogno di elettricità. Come ridurre, quindi, l’impatto energetico del raffrescamento degli edifici?
Una proposta arriva da un gruppo di studiosi del Politecnico di Torino (SMaLL) e dell’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica (INRiM), che ha studiato un dispositivo capace di generare un effetto di raffrescamento senza l’utilizzo di energia elettrica, oggetto di una ricerca pubblicata sulla rivista Science Advances*. Come nei dispositivi tradizionali, anche questa nuova tecnologia diminuisce la temperatura di un ambiente sfruttando l’evaporazione di un liquido. Tuttavia, la chiave della nuova soluzione proposta dai ricercatori torinesi è quella di usare semplice acqua e comune sale invece di composti chimici potenzialmente dannosi per l’ambiente. L’impatto ambientale del nuovo dispositivo è inoltre ridotto perché basato su fenomeni passivi, ossia processi spontanei come la capillarità o l’evaporazione, invece che su pompe e compressori che necessitano di energia e manutenzione.
“Far evaporare acqua per ottenere una sensazione di fresco è una soluzione nota da millenni, come il sudore che evapora sulla pelle per raffrescarci o un fazzoletto imbevuto appoggiato sulla fronte nelle giornate più calde. La nostra idea permette di ingegnerizzare questa tecnologia, massimizzandone l’effetto e rendendola possibile in qualsiasi condizione ambientale. Anziché essere esposta all’aria, l’acqua pura bagna una membrana impermeabile che la separa da una soluzione di acqua e sale ad alta concentrazione. La membrana può essere immaginata come un setaccio con maglie grandi un milionesimo di metro: grazie alle sue proprietà idrorepellenti, questa membrana non viene attraversata dall’acqua liquida ma solo dal vapore. In questo modo, l’acqua dolce e salata non si mescolano, mentre il vapore d’acqua è libero di passare da una parte all’altra della membrana. In particolare, la differente salinità nei due liquidi consente all’acqua pura di evaporare più velocemente di quella salata. Questo meccanismo raffredda l’acqua pura, e può essere amplificato grazie alla presenza di diversi stadi evaporativi. L’acqua salata tenderà gradualmente a “raddolcirsi” nel tempo e dunque l’effetto raffrescante ad attenuarsi; tuttavia, la differenza di salinità tra le due soluzioni può essere continuamente – e in modo sostenibile – ristabilita tramite l’energia solare, come peraltro dimostrato in un nostro recente studio**”, spiega Matteo Alberghini, dottorando del Dipartimento Energia del Politecnico e primo autore della ricerca.
La caratteristica vincente del dispositivo ideato al Politecnico di Torino risiede nella sua progettazione: queste unità refrigeranti, spesse qualche centimetro ciascuna, possono funzionare autonomamente oppure essere disposte in serie, come accade con le comuni batterie, impilandole per aumentare l’effetto di raffrescamento. In questo modo è possibile calibrarne la potenza in base alle singole esigenze, raggiungendo capacità di raffrescamento confrontabili a quelle tipicamente necessarie per gli usi domestici. Inoltre, l’acqua non ha bisogno di pompe per essere movimentata all’interno del dispositivo, ma si “sposta” in modo spontaneo grazie all’effetto capillare di alcuni componenti che, così come la carta da cucina, sono capaci di assorbire e trasportare l’acqua anche contro la forza di gravità.
“Anche altre strategie per il raffrescamento passivo sono in fase di sperimentazione in diversi centri di ricerca mondiali, ad esempio quelle basate sulla dispersione di calore per effetto radiativo. Il raffrescamento radiativo, seppur promettente e adatto ad alcune applicazioni, presenta però due grossi limiti: il principio su cui si basa è inefficace in climi tropicali e in generale nelle giornate molto umide, quando peraltro il bisogno di condizionamento sarebbe maggiore; inoltre il limite teorico della potenza di raffrescamento che può fornire è piuttosto ridotto. Il nostro prototipo passivo, basato invece sul raffrescamento evaporativo tra due soluzioni acquose a diverse salinità, potrebbe superare questo limite, realizzando un effetto utile indipendente dall’umidità esterna. Per di più, potremmo ottenere in futuro una capacità di raffrescamento anche più elevata aumentando la concentrazione della soluzione salina oppure ricorrendo ad un design modulare più spinto del dispositivo”, commentano i ricercatori.
Il potenziale basso costo di produzione – appena qualche euro per ciascuno stadio – e la semplicità dell’assemblaggio renderebbero il dispositivo ideale per essere installato in zone rurali, dove la scarsa presenza di tecnici specializzati può rendere difficoltosa l’installazione e la manutenzione dei sistemi tradizionali. Interessanti ricadute potrebbero anche aversi in regioni ricche di acque ad alta concentrazione salina, come ad esempio quelle costiere, nelle vicinanze di grossi impianti di dissalazione oppure in prossimità di saline.
Ad ora, la tecnologia non è ancora pronta per una immediata commercializzazione. Tuttavia, ulteriori sviluppi (anche soggetti a futuri possibili finanziamenti o collaborazioni industriali) sono possibili. In prospettiva, tale tecnologia potrebbe affiancare gli impianti già esistenti alleggerendo il loro carico di lavoro e, così ridurre il consumo energetico a parità di effetto raffrescante.