ROMA – Escluso il comparto agricolo, un’impresa su due in Italia è stata costretta a interrompere le proprie attività per le misure di contenimento adottate dal governo per fronteggiare la diffusione del covid-19: in totale 2milioni 230mila unità, corrispondenti a poco più della metà delle imprese attive (52,7%). Oltre al comparto agroalimentare i settori che non hanno subito restrizioni sono quelli di pubblica utilità (energia, elettricità, rifiuti) insieme ai servizi di trasporto, di informazione, l’istruzione, la sanità e le attività finanziare e assicurative. È quanto emerge dal policy brief “Covid-19: misure di contenimento dell’epidemia e impatto sull’occupazione” curato dall’Inapp, l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche, che analizza l’impatto del lockdown sulle imprese e sui lavoratori a tempo indeterminato, determinato e con contratti di somministrazione in base alle misure adottate dal governo fino a DPCM del 10 aprile 2020.
“Le misure di sospensione delle attività produttive hanno agito in misura maggiore su settori caratterizzati, più di altri, dalla necessità di svolgere la prestazione lavorativa sul luogo di lavoro, come la gran parte delle imprese manifatturiere, mentre in buona parte dei settori rimasti attivi il lavoro ha caratteristiche tali da permettere uno svolgimento in modalità remota, telelavoro o lavoro agile – ha spiegato il professor Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp – “Dai dati analizzati si ricava che sono soprattutto le micro e piccole imprese ad essere più colpite dalle misure di sospensione dell’attività produttiva. Queste, peraltro, per molte ragioni, incontreranno maggiori difficoltà nel sopravvivere a un periodo prolungato di assenza di fatturato e meritano pertanto particolare attenzione nella predisposizione di adeguate misure non solo per garantirne la sopravvivenza, ma anche per assicurarne la ripresa”.
In base allo studio le attività professionali sono state sospese in misura marginale (2,8%); il 41,9% delle imprese nel settore del commercio risultano attive, come il 29,2% delle imprese nel settore delle costruzioni. La quota di imprese sospese decresce quasi sistematicamente con la dimensione aziendale: a fronte di una incidenza complessiva delle aziende la cui attività è stata interrotta pari al 55,3%, le imprese senza addetti risultano sospese in ragione del 66,7%, mentre solo il 33,8% delle grandi imprese, con oltre 250 addetti, risultano interessate dalle misure di restrizione. Le imprese artigiane, che hanno caratteristiche dimensionali e settoriali specifiche, risultano sospese in misura superiore al totale (58,7%).
“La quota elevata di micro e di piccole imprese interessate dal fermo delle attività è preoccupante – ha proseguito il presidente dell’Inapp – dal momento che le aziende di dimensioni minori hanno generalmente una più bassa capacità di fronteggiare shock esogeni e inattesi che incidono in misura elevata sulla dinamica della domanda e sul fatturato”.
L’analisi secondo la qualifica rivela una quota di dipendenti di imprese rimaste attive minore per gli operai e gli apprendisti (53,4% rispetto al 59,7% del totale dei dipendenti). Tale evidenza è associata alla più elevata incidenza dei provvedimenti di contenimento sul comparto manifatturiero che registra il 58,8% dei dipendenti sospesi a fronte del 40,3% del totale. Il 67,9% e il 75,3% degli impiegati e dei dirigenti, rispettivamente, sono rimasti attivi grazie al telelavoro o lo smart working.
Di particolare interesse l’analisi secondo il carattere dell’occupazione. I dipendenti a tempo determinato coinvolti dalle misure di contenimento del contagio sono poco meno di 600mila unità, occupati in prevalenza nel settore terziario (419mila). I lavoratori a tempo determinato occupati in imprese che operano in settori per i quali è stata disposta la sospensione risultano più di altri a rischio di perdita dell’occupazione; inoltre poco meno di 225mila dipendenti a termine interessati dalla restrizione sono occupati nel settore alberghiero e della ristorazione, dove il 92,9% delle imprese risultano sospese e dove generalmente i rapporti di lavoro a termine hanno una durata estremamente ridotta ed è verosimile che in presenza del fermo della attività i contratti non siano rinnovati.
I lavoratori a termine sono generalmente più a rischio di perdere l’occupazione in fasi recessive o a causa di shock esogeni. “Nel 2009 – sottolinea lo studio dell’Inapp – l’anno in cui la recessione economica ha pesato in misura maggiore in Italia, con una flessione del Pil pari al 5,3%, il numero di occupati a termine si è ridotto del 7,2% rispetto all’anno precedente, a fronte di una sostanziale stabilità dell’occupazione a tempo indeterminato (-0,1%). Solo nell’anno successivo si è registrata una marcata diminuzione degli occupati a tempo indeterminato”.
“In un simile contesto risultano necessarie misure di sostegno al reddito dei lavoratori espulsi dall’occupazione in seguito alla caduta del livello di attività economica causata dalle misure di contenimento dell’epidemia – ha concluso il presidente dell’Inapp, professor Sebastiano Fadda – anche nell’ottica di mantenere un adeguato livello di domanda aggregata necessario per supportare la ripresa dell’offerta. Ma il sostegno al reddito dei lavori risulta molto debole per alcune categorie di lavoratori interessati dal fermo dell’attività. In particolare, i lavoratori con contratti a termine non potranno beneficare delle misure straordinarie di sostegno al reddito varate per l’emergenza nel caso molto probabile che a seguito del fermo dell’attività il loro contratto non venga rinnovato. Bisognerebbe pensare anche a sostenere nell’emergenza il reddito di altri lavoratori “marginali”, quali i lavoratori domestici, come colf e badanti, i tirocinanti e i lavoratori a domicilio, per non parlare del grande problema endemico dei lavoratori in nero”.
Un problema simile riguarda i lavoratori in somministrazione, per i quali si stima una quota di occupati in settori interessati dal fermo delle attività pari ad oltre il 40%, corrispondente a oltre 140mila unità. L’analisi per età rivela che i lavoratori dipendenti più giovani (fino a 29 anni di età) risultano presenti in aziende attive in misura lievemente minore (52,4%) rispetto al totale (59,7%). Poco meno dell’80% dei lavoratori over-50 occupati nei servizi risulta attivo a fronte del 55,2% deli più giovani. Gli occupati nei comparti industriali rimasti attivi non registrano differenze sostanziali rispetto alla classe di età. La componente femminile dell’occupazione privata risulta interessata dai provvedimenti di contenimento in ragione del 40,2, a fronte del 43,8% degli uomini. Il minore impatto sulle donne è associato alla maggiore incidenza dell’occupazione maschile nell’industria, dove la quota di addetti in imprese sospese è quasi doppia rispetto a quella dei servizi.